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L’aiuto alla Bergamo ferita direttamente dal territorio: l’esperienza di Roberto Paratico, direttore generale della Flow-Meter Spa

 
Roberto Paratico, direttore generale della Flow-Meter Spa, è sceso in campo con la sua azienda per fornire migliaia di strumentazioni indispensabili per garantire ossigeno e gas medicinali ai malati di Covid.
Sono trascorsi due anni dall’arrivo della pandemia nella nostra provincia. Cosa si ricorda di quei momenti?
 
«La nostra azienda si è messa subito a disposizione in modo da trovare soluzioni per tutto ciò che riguardava la fornitura di ossigeno e gas medicali. Gli ospedali necessitavano non solo di apparecchiature come flussimetri o sistemi di ventilazione non assistita, ma tutto il materiale per l’erogazione. Le giornate erano concitate, perché era necessario trasformare i reparti delle strutture sanitarie in sub intensiva. Chiaramente gli impianti non erano dimensionati e noi abbiamo fatto di tutto per realizzare gli ampliamenti necessari in modo da erogare ossigeno al maggior numero di pazienti. Non ci siamo mai fermati e ricevevo anche 15 o 20 telefonate ogni giorno da Giovanni Licini, fondatore dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà, che era in prima linea per risolvere i problemi nel più breve tempo possibile. Uno tsunami inaspettato stava facendo volare via i nostri cari, e gli amici, sia giovani che anziani».
 
 
La vostra azienda, specializzata in attrezzature medicali, ha fatto letteralmente gli straordinari.
 
«In tre mesi sono stati profusi enormi sforzi per assistere tutti i malati, a partire dai nostri anziani, che rischiavano di morire perché mancavano le bombole di ossigeno. Ricordiamo anche l’ospedale distaccato in fiera, dove abbiamo realizzato un impianto di distribuzione di gas medicinali in una settimana e donato tutte le attrezzature necessarie. I nostri caschi Cpap sono stati validati anche negli Stati Uniti, mettendo a disposizione questa tecnologia per il trattamento dei pazienti critici.
 
Eravamo costretti a dover operare il triplo dei ritmi normali e abbiamo convertito la produzione sulla strumentazione per l’erogazione dell’ossigeno. D’altronde, dovevamo accontentare le esigenze del nostro territorio e di tutta Italia e abbiamo interrotto le forniture estere. Non dimenticherò mai la fila delle auto di servizio mandate dagli ospedali che aspettavano la consegna delle attrezzature salva vita. Teniamo presente che ci siamo ritrovati a produrre anche 5 mila flussimetri ogni settimana. Con orgoglio abbiamo lavorato a stretto contatto con i medici, impegnati direttamente sul campo, pur rimanendo in seconda linea e di conseguenza più protetti rispetto agli operatori sanitari. In qualche mese siamo riusciti a riportare, non tanto la serenità, che manca ancora oggi, ma quantomeno una condizione gestibile
 
I bergamaschi non si sono certo piegati davanti alla ferocia del virus, dimostrando grande solidarietà.
 
«Nella nostra provincia il volontariato, a partire dall’Accademia dello Sport per la Solidarietà, capitanata da Giovanni Licini, ha rappresentato un esempio per tutti. Nei momenti più concitati gli imprenditori sono rimasti uniti da un collante che ha permesso di salvare tantissime vite umane. La tac mobile portata al Bolognini di Seriate ha permesso una diagnosi tempestiva, quando ancora i tamponi o i sistemi per le analisi sui pazienti erano ancora contenuti. In tantissimi hanno donato denaro per realizzare opere e strutture per la comunità bergamasca, mentre i volontari hanno lavorato senza sosta per settimane. Dobbiamo alzarci in piedi per applaudire questa grande generosità, dai tifosi dell’Atalanta agli imprenditori che hanno messo a disposizione tuto quello che avevano pur di dare una mano agli altri».
 
 
Le immagini di Bergamo, ma anche la reazione della nostra comunità, hanno fatto il giro del mondo.
 
«Il ricordo rimarrà indelebile nella mia memoria e tutti noi confidiamo che torni presto il sole dopo la tempesta. Abbiamo dimostrato come sono le condizioni più difficili a rendere le cose straordinarie».
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La testimonianza diretta di Emilio Bailo: il pronto soccorso come un inferno dantesco

La testimonianza diretta di Emilio Bailo

Riviviamo l’emergenza sanitaria in Bergamasca. Emilio Bailo racconta la sua esperienza diretta con il Covid-19.
Cosa ricorda di quei giorni terribili, nella prima ondata della pandemia che ha sconvolto la Bergamasca a marzo 2020?
«Non è semplice parlare di questa esperienza, perché mi ha segnato più di tante altre nella mia vita. Io e mia moglie abbiamo iniziato ad avere i primi sintomi nei primi giorni di marzo 2020. Più passava il tempo e più crescevano i problemi, avevamo febbre e tosse ed era difficile ricevere risposte e supporto dal medico di base».
Visto il peggiorare delle vostre condizioni di salute, dalla vostra abitazione siete stati costretti ad andare in ospedale.
«Ad un certo punto è arrivata una telefonata provvidenziale da parte di mio cognato, che ci ha portato al Bolognini di Seriate per una Tac. Ci siamo infilati in macchina e nel deserto del lockdown, da Ponte San Pietro siamo arrivati alla struttura sanitaria di Seriate. Gli esami hanno subito sentenziato che soffrivamo di una polmonite interstiziale».
 
Stiamo parlando dei giorni peggiori della pandemia in Bergamasca, dove tutti ricordiamo le code fuori dagli ospedali. Come avete vissuto l’esperienza del ricovero?
«Nel mese di degenza, l’esperienza più drammatica è stata sicuramente al pronto soccorso del Bolognini di Seriate dove ci siamo trovati in un autentico inferno dantesco. Si vedevano persone accatastate su letti improvvisati che riempivano tutti gli spazi. I pazienti più anziani urlavano chiedendo aiuto e il personale sanitario correva da un malato all’altro. Dopo un giorno ci hanno trovato posto in reparto e hanno iniziato le cure».
In quella fase era impossibile avere contatti con amici e parenti. Come avete trascorso l’isolamento?
«Fortunatamente ero vicino a mia moglie e mi hanno aiutato molto i social. Grazie alla mia vasta rete di conoscenze e familiari (ho sei fratelli) ho ricevuto un supporto psicologico fondamentale tra messaggi e telefonate».
Passato il peggio, lei è stato portato in una seconda struttura sanitaria per completare il ciclo di cure.
«Sì, una volta dimesso dal Bolognini, sono stato accompagnato alla rsa di Scanzorosciate, un luogo ameno e blindato, prima di rientrare con grande emozione, a seguito del doppio tampone negativo, nella mia abitazione».
Cosa le ha lasciato dentro questa terribile esperienza?
«Innanzitutto il comportamento encomiabile di tutti gli operatori sanitari, in particolare delle infermiere, che hanno dimostrato tutta la loro professionalità ed empatia nei confronti dei pazienti. Un ruolo fondamentale l’ha svolto anche l’Accademia dello Sport per la Solidarietà con Giovanni Licini. In estate abbiamo trascorso qualche giorno di vacanza al sud Italia e ho incontrato diverse persone, da chi mi ha chiesto se ciò che aveva visto in televisione era veramente successo, ad alcuni giornalisti della Rai che, con le lacrime agli occhi, mi hanno espresso tutta la loro vicinanza per la tragedia vissuta in Bergamasca. Auspico una sola cosa: che i negazionisti si fidino di più della scienza.
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Monsignor Giulio Dellavite: la prossimità della Chiesa di Bergamo durante la pandemia

 
Monsignor Giulio Dellavite, Segretario generale della Curia di Bergamo, ripercorre i momenti più tragici della pandemia. In quei giorni tragici la prossimità, una parola di conforto e la benedizione dei medici agli ammalati, hanno permesso, grazie a semplici gesti, di alleviare dolore e sofferenze. Proseguiamo la raccolta dei ricordi dei primi mesi del 2020.
 
In un momento tragico per tutta la Comunità bergamasca, qual è stato il primo pensiero della nostra Chiesa?
 
«Una delle priorità che il Vescovo Francesco Beschi ha avuto durante la pandemia, soprattutto nel boom della prima ondata, è stato quello della prossimità, cioè di cercare di essere presenti il più possibile, tramite lo slogan «Uniti a distanza». Nei giorni della malattia, tutto distanziava, creava divisione e lontananza. Ogni domenica in Cattedrale veniva celebrata una Messa, mentre a metà settimana il Vescovo recitato un rosario nelle chiese della provincia. Con lui non c’era nessuno, ma la diretta televisiva dai diversi paesi della pianura e delle valli era un modo per essere prossimi a tutto il territorio».
 
 
La Chiesa e molte associazioni della Bergamasca si sono attivate per stare vicine ai più deboli e per portare loro conforto.
 
«La prossimità era rappresentata dai gesti più concreti dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà, così come di altre associazioni, che hanno permesso di smuovere incredibili forze. Ma ricordiamoci anche dei tanti vicini di casa che si sono occupati di fare la spesa ad amici, parenti e conoscenti che in quei giorni erano ammalati, partendo dalle piccole cose. Nel momento peggiore della pandemia era molto importante anche ricevere una telefonata e la nostra Curia ha organizzato un servizio di ascolto con 60 preti, oltre a personale laico, in modo da rispondere alle numerose chiamate. Tanti anziani, ma anche giovani, avevano bisogno di supporto e la prossimità è stata indispensabile per superare la burrasca, nella quale la barca della famiglia ha sicuramente tenuto. I genitori sono stati molto presenti, assistendo i propri figli nella didattica a distanza, ma in quei giorni tutta la società è diventata famiglia, così come la Chiesa, che è entrata nelle case con le celebrazioni».
 
 
Il Vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, ha sostenuto anche tutto il personale sanitario, autorizzando medici e infermieri a benedire i malati.
 
«E’ stata una bellissima decisione, nata dal nostro Vescovo Francesco, che insieme a tutti i Vescovi della Lombardia, ha permesso a tante persone un grande gesto di vicinanza. Mi ha molto colpito il discorso di un medico che si dichiarava ateo, che ha raccontato come, nei momenti più concitati dell’emergenza sanitaria, le cure non bastavano e mancava completamente il contatto fisico con in pazienti. Ebbene, anche secondo lui l’ultima cura che potevano dare gli operatori sanitari era proprio la benedizione. Non si sarebbe mai aspettato che anche per lui, che era ateo, dire bene e una maggiore vicinanza a Dio, avrebbe rappresentato un dono unico e prezioso. Medici e infermieri sono diventati benedizione, presenza e mano di Dio. In quei giorni moltiplicavano il pane, guarivano i malati e scacciavano i demoni, la sofferenza e la paura, esattamente come i miracoli di Gesù».

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Monsignor Giulio Dellavite

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Bergamo Golf for Charity: 1° prova rinviata al 30 aprile

A causa del brutto tempo previsto per la giornata di demica, la 1° prova del Bergamo Golf for Charity in programma al Golf Club Rossera è stata rinviata a sabato 30 aprile.

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Cala il sipario sull’hub vaccinale di Chiuduno: un’esperienza fantastica per i nostri volontari

Si chiude qua l’avventura dell’ hub vaccinale di Chiuduno, dove anche la nostra Accademia dello Sport è stata grande protagonista con i suoi volontari. Lo sforzo di tanti ha portato a risultati fantastici. Il polo vaccinale di Chiuduno è stato quello che ha somministrato più dosi di vaccino anti Covid di tutta la Bergamasca, 480.339 in 13 mesi.

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Bergamo Golf for Charity 2022: il dépliant della manifestazione a cura dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà

Riprendono le manifestazioni sportive legate all’Accademia dello Sport per la Solidarietà. In pagina trovate il link da visualizzare con il depliant della manifestazione e tutte le iniziative della nostra associazione.

2022 LIBRETTO MANIFESTAZIONE GOLF FOR CHARITY

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“Lo sport Oltre il Covid: noi non molliamo”. La pagina simbolo del 2022 dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà

Inizia ufficialmente il nuovo anno legato allo sport da parte dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà. Ripartiamo da qua, dalle persone che hanno contribuito a non mollare e a portarci fuori dall’incubo del Covid-19. Ecco la locandina che ci accompagnerà in questo 2022 che per noi vuole essere la giusta occasione di rilancio. Nei prossimi giorni vi aggiorneremo riguardo alla nostra attività sportiva e alle prime date del torneo di golf.

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Devis Terranova, l’esperienza del Covid-19 vissuto in prima persona

Devis Terranova racconta il suo percorso, dai primi sintomi al ricovero in ospedale. «Il Covid è un’esperienza drammatica: ho perso mio padre e molti pazienti ricoverati vicino a me sono morti».
Prosegue il nostro viaggio, in collaborazione con l’Accademia dello Sport per la Solidarietà, per rivivere alcuni ricordi, ancora nitidi, dei momenti più concitati che abbiamo vissuto in Bergamasca, a causa della pandemia.
«Quando si è iniziato a parlare di Covid, siamo subito attrezzati in ufficio con i vari dispositivi. Ma nessuno avrebbe mai immaginato ad un’emergenza sanitaria di queste proporzioni».
Lei è fra le persone che hanno subìto il contagio ed è stato ricoverato d’urgenza in ospedale.
«Ho iniziato ad avere i primi sintomi e poi è subentrata la febbre, durata una settimana. Nonostante la Tachipirina, continuava a risalire e un giorno sono anche svenuto perché non avevo più le forze.
Mia moglie mi ha accompagnato al pronto soccorso dove, grazie alla Tac, è emersa una situazione abbastanza grave».
In quei momenti gli ospedali erano presi d’assalto con centinaia di pazienti in attesa.
«Proprio al pronto soccorso ho vissuto l’esperienza più drammatica. Si vedeva una totale disperazione e persino l’infermiera aveva le lacrime agli occhi. Io ero sistemato su una sedia a rotelle con l’ossigeno e non sapevamo più dove mettere i pazienti. Negli occhi degli operatori sanitari ho letto un senso di impotenza e di frustrazione».
«Hanno iniziato a curarmi e mi hanno messo il famoso casco Cpap, fastidiosissimo, tra l’ossigeno che secca la bocca e il forte rumore che senti nelle orecchie. Sono poi stato trasferito in sub intensiva e ho iniziato cure di ogni genere».
In quei giorni era difficile comunicare con i propri parenti e conoscere anche il loro stato di salute.
«Mia moglie era positiva ma non ha sviluppato sintomi, mentre durante il ricovero a Seriate ho appreso della morte di mio padre, a poca distanza da me, venuto a mancare proprio a causa del Covid».
Il lutto ha purtroppo colpito moltissime famiglie bergamasche,
«A Bergamo abbiamo vissuto tutti, chi direttamente e chi indirettamente, questa situazione. Un sacco di gente è finita in ospedale e tantissimi si sono salvati grazie a medici e infermieri che, nonostante la disperazione, non hanno mai mollato. Ho vissuto una situazione drammatica e ho visto morire delle persone vicino a me: ancora oggi mi commuovo perché non si è mai preparati».
Agli operatori sanitari va tutto il nostro plauso per quanto fatto, ma anche per la sensibilità dimostrata che ha permesso di mettere a contatto i pazienti con i loro parenti.
«Quando ero in ospedale, un’infermiera passava con il tablet per mettere in contatto anziani con i familiari. Nell’aria si percepiva la volontà di non mollare e di fare qualcosa per uscire da una situazione drammatica e ingestibile».
Durante l’esperienza con il Covid ha conosciuto l’Accademia dello Sport per la Solidarietà.
«Sinceramente non conoscevo l’associazione e sono rimasto veramente colpito da quanto è riuscito a fare Giovanni Licini, fondatore dell’Accademia, con la sua attività di volontariato e raccolta fondi per aiutare la comunità e il sistema sanitario.
Personalmente ho utilizzato per due volte la tac mobile arrivata dall’Olanda grazie all’Accademia dello Sport per la Solidarietà e grazie a questo importante strumento è stato possibile arrivare a diagnosi tempestive su più pazienti. Giovanni Licini è sempre rimasto in contatto con mia moglie e faceva da tramite sullo mio stato di salute».
Fortunatamente, dopo 15 giorni di ricovero, le sue condizioni sono migliorate e ha potuto rientrare a casa. Cosa ricorda di quei momenti?
«Sicuramente il tragitto di ritorno verso la mia abitazione, con le strade completamente vuote e deserte. A casa mi aspettavano due bambini piccoli, che mi hanno accolto con uno striscione «Bentornato». E’ stato il regalo più bello! Siamo dovuti stare separati per tre settimane, poi, una volta che sono tornato negativo, ho potuto finalmente riabbracciare i miei cari».
Oggi la situazione è fortunatamente diversa, grazie alla campagna vaccinale che ha diminuito i contagi.
«I vaccini hanno dato un grande aiuto, così come i presidi sanitari hanno permesso di uscire dall’emergenza. Se serve un ultimo sforzo per uscirne, facciamolo».
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Angeletti, il suo curaro ha salvato vite, compresa la sua, all’Ospedale di Seriate

Aldo Angeletti, presidente dell’azienda Salf Spa – Laboratorio farmacologico di Cenate Sotto è stato protagonista di un benevolo scherzo del destino. E’ la dimostrazione di come la generosità venga spesso ricompensata.
Prosegue il viaggio attraverso le testimonianze dei protagonisti della pandemia, uniti nella solidarietà. Da presidente di un’azienda che si occupa di farmaci, come ha vissuto l’emergenza sanitaria?
 
«E’ un periodo che ci ricorderemo a lungo molto bene – commenta Aldo Angeletti -. Ci siamo resi conto di come ci fosse un dramma in corso e sembrava di vivere in una bolla quasi surreale».
 
Come ha conosciuto l’Accademia dello Sport per la Solidarietà?
 
«Una domenica sera ricevetti la chiamata di un amico che mi annunciava la telefonata di Giovanni Licini, fondatore dell’Accademia, che aveva un’urgenza per ospedale di Seriate. Sinceramente conoscevo Licini solo di nome, per le opere meritorie che aveva portato avanti negli anni in campo sociale. Quando mi chiamò, mi informò relativamente alla necessità urgente del Bolognini di ricevere un medicinale indispensabile per la sedazione dei pazienti, il Curaro».
 
 
Si tratta di un prodotto specifico, che rientra fra le disponibilità della sua azienda Salf Spa?
 
«Esattamente, è fra i medicinali che commercializziamo e, proprio per l’evolversi della pandemia, c’era molta richiesta e riscontravamo una certa carenza con poche scorte. Dissi a Giovanni Licini che l’indomani, lunedì mattina, avrei immediatamente verificato la disponibilità a magazzino. Così feci e per nostra fortuna avevamo in casa un paio di migliaia di fiale, che abbiamo consegnato subito alla struttura sanitaria di Seriate. Ci ringraziarono tutti e ancora oggi ci sono riconoscenti per la pronta risposta alle esigenze del territorio».
 
Purtroppo trascorrono poche ore dalla consegna del medicinale e anche lei viene contagiato dal Coronavirus.
 
«Si è trattato proprio di un benevolo scherzo del destino, perché mercoledì, due giorni dopo la consegna del curaro all’ospedale di Seriate, ho contratto la malattia. Mi sono subito reso conto che non era una semplice influenza e domenica le mie condizioni hanno iniziato a peggiorare. Mia moglie ha chiamato il 118 e mi hanno ricoverato proprio al Bolognini di Seriate. A poche ore dall’arrivo all’ospedale, mi hanno trasferito in terapia intensiva, dove sono rimasto per ben 20 giorni. Capite bene che avrò sicuramente anche io beneficiato delle stesse fiale che la nostra azienda aveva donato e, facilmente, il gesto di generosità che abbiamo compiuto mi salvato la vita».
 
Peraltro l’attività della sua azienda non si è mai fermata, nemmeno nel periodo peggiore della pandemia.
 
«Non potevamo permettercelo, anche perché lo stesso Ministero della Salute in quel periodo ci aveva raccomandato di non far mancare i medicinali essenziali agli ospedali. Con le richieste in aumento abbiamo seriamente rischiato di andare in carenza e qui devo ringraziare tutti i nostri dipendenti che hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo, dimostrando dedizione al lavoro, senso del dovere e di responsabilità, ma anche tanta voglia di contribuire alla salute pubblica nel senso iù stretto della parola. Ci è sembrato giusto e doveroso distribuire loro un premio speciale per la riconoscenza e il coraggio. Eravamo infatti una delle poche aziende in attività e i lavoratori sapevano bene di essere esposti al contagio, ma hanno risposto veramente in maniera lodevole».
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La grande organizzazione alpina, insieme all’Accademia, per l’Ospedale in Fiera. La testimonianza di Sergio Rizzini, responsabile Ana

Sergio Rizzini, responsabile della sanità alpina e dell’Ospedale da Campo dell’Ana, definisce come un vero e proprio miracolo la costruzione di 142 posti letto che hanno salvato la vita a molti bergamaschi. Un’operazione resa possibile grazie a decine di volontari tra alpini, artigiani e tifosi atalantini, sotto il vigile sguardo del busto di Papa Giovanni XXIII

 Sergio Rizzini, responsabile della sanità alpina e dell’Ospedale da Campo dell’Ana, ripercorre quanto accaduto dai primi segnali registrati a gennaio 2020, fino all’allestimento dell’ospedale da campo nei padiglioni della fiera di Bergamo.

«Ricordo come fosse ieri, che è iniziato tutto il 4 di febbraio 2020, quando il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, ha attivato la sanità alpina per l’aeroporto di Bergamo. In quel periodo abbiamo controllato 18 mila viaggiatori al giorno, rimanendo operativi dalla mattina alle 5 fino alle 2 di notte».

Ai primi di febbraio 2020 c’era già la sensazione che i pochi contagi si sarebbero presto trasformati in un’ecatombe di portata internazionale?

«Mi sono subito reso conto che situazione era molto più grave di quello che ci si aspettasse. Già l’8 febbraio avevo ipotizzato che sarebbe stata un’emergenza più grave dopo la pandemia registrata con la Spagnola. Nei giorni precedenti, a fine gennaio, ci siamo riuniti a Roma per alcuni incontri di vertice con le forze armate e il dipartimento di Protezione civile. In quell’occasione ricevetti una telefonata da un altissimo ufficiale dell’esercito che mi chiedeva come avrei organizzato i campi di accoglienza per positivi con tutto il supporto sanitario».

A quel punto, in qualità di responsabile della sanità alpina, come decise di muoversi?

«Telefonai subito per ordinare dispositivi di protezione come camici e mascherine, anche se nessuno immaginava che ne sarebbero serviti migliaia, cosa che ci consentì di portare avanti in sicurezza l’attività in aeroporto. Intorno al 21 febbraio iniziai le mie riflessioni su come creare un polmone di accoglienza fuori dagli ospedali».

I momenti sono veramente concitati e non si riescono nemmeno a contare i pazienti contagiati e, purtroppo, anche le migliaia di morti.

«L’ospedale Ana è concepito come da campo e all’inizio si pensava alle classiche tende, ma eravamo a marzo e non sapevamo quanto sarebbe durata la pandemia. Dovevamo progettare un

Serviva una struttura che durasse almeno 4 stagioni e potesse sopportare sia il caldo sia il freddo. Inoltre occorreva fare molta attenzione alla sanificazione dell’aria in modo da prevenire altri contagi».

Mentre tutto il mondo seguiva le vicende di Wuhan e la costruzione della mega struttura sanitaria in Cina, Bergamo riusciva a stupire per laboriosità, ingegnosità e spirito di squadra. In una settimana decine di volontari riescono ad allestire un ospedale con più di 140 posti letto.

«Pensammo alla fiera di Bergamo, ma inizialmente si pensava al piazzale. Lavorando quotidianamente con la Regione e il Governo, riuscii a ottenere di costruire un ospedale da campo «sui generis» e cioè all’interno dei padiglioni, In questo modo siamo riusciti a realizzare anche un impianto di aerazione, garantendo aria sanificata sia in entrata che in uscita. Alla fine abbiamo costruito dal nulla un ospedale da 142 posti, 72 di terapia intensiva e 70 in sub intensiva, e abbiamo deciso di regalare il progetto all’Oms. Grazie agli spazi e alle continue sanificazioni, abbiamo ottenuto condizioni particolarmente favorevoli nella cura dei pazienti, registrando una mortalità dieci volte più bassa rispetto alla media».

Nei momenti più difficili è emersa la grande solidarietà di Bergamo, come capitale del volontariato.

«L’Accademia dello Sport per la Solidarietà ci ha supportato sin dall’inizio, rispondendo ad ogni nostra richiesta. Ero in contatto tutti i giorni con il fondatore dell’associazione, Giovanni Licini, e abbiamo ricevuto veramente un aiuto indispensabile. Grazie all’Accademia siamo riusciti ad avere un grande impianto d’ossigeno e alcuni imprenditori ci hanno fornito materiale indispensabile, come le bombole, i filtri e tutto il necessario per aprire i reparti e far respirare i bergamaschi».

Molti hanno definito come un vero e proprio miracolo la nuova struttura sanitaria cresciuta dal nulla in pochissimo tempo.

«Possiamo affermare che si è mosso l’intero popolo bergamasco e l’ospedale da campo era certificato con una tripla A, l’iniziale di Alpini, Artigiani e Atalantini. Tutti eravamo lì con l’obiettivo di frenare e sconfiggere il virus, per consentire ai propri familiari e amici e cittadini di guarire e tornare alla normalità. Ricordo che il primo giorno di lavoro abbiamo scoperto un busto di gesso di Papa Giovanni XXIII, che ci ha guidato per compiere un grande miracolo. Non ci ha mai fatto mancare la lucidità e nessuno di noi si è fermato per la stanchezza: era come se avessimo una testa sopra di noi come una forza sovrannaturale».

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