Ci ha lasciato Domenico Bosatelli: il pensiero dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà
Fabio Pezzoli, direttore sanitario dell’ASST Papa Giovanni XXIII, racconta i giorni più duri della pandemia
Fabio Pezzoli, direttore sanitario dell’ASST Papa Giovanni XXIII, confessa di aver pianto davanti a tanti contagiati e morti per il Covid.
Si sarebbe mai immaginato un evento così tragico in terra bergamasca?
«Ripercorrendo quello che è successo, ricordo che il 22 febbraio 2020 ci siamo trovati per creare l’unità di crisi interna in ospedale con dirigenti e specialisti coinvolti, in particolare infettivologi, rianimatori e pneumologi. In quei primi momenti abbiamo iniziato a capire cosa ci stava capitando: sapevamo della Cina, ma per noi era una novità».
Senza alcun preavviso iniziarono ad arrivare i primi malati.
«Dal primo caso in malattie infettive sono trascorse solo 24 ore prima di assistere ad un incremento esponenziale delle persone che si ammalavano. La conoscenza di come curarle era in itinere, anche perché sapevamo come affrontare una patologia polmonare, ma qui dovevamo affrontare un virus ancora sconosciuto. Abbiamo subito studiato quanto era stato fatto in Cina, a cui abbiamo aggiunto la nostra esperienza».
Qual è stato l’impatto della pandemia sull’organizzazione della struttura?
«Nel giro di 15 giorni abbiamo dovuto rivoluzionare l’ospedale, tenuto conto dei picchi che a metà marzo hanno portato anche 100 ingressi al giorno in pronto soccorso con patologie da Coronavirus. Su 950 posti letto totali, ne abbiamo dedicati 550 ai malati Covid».
Tutta la Bergamasca sta vivendo un momento drammatico.
«Dall’ufficio vedevo le code di ambulanze con a bordo i pazienti, in un silenzio assoluto a causa del lockdown. Le strade erano deserte e si sentiva solo il rumore delle sirene. Ogni giorno ci trovavamo con l’unità di crisi per riorganizzare l’ospedale e cancellare i ricoveri di altre patologie. Tutti i nostri dipendenti (medici, infermieri e tecnici) non si sono mai tirati indietro lavorando su turni giorni e notte per curare pazienti. Fortunatamente il nostro ospedale aveva già 72 posti letto di terapia intensiva e siamo arrivati fino a 110 letti utilizzando anche i blocchi di sala operatoria».
In base alla sua esperienza personale, quali sono state le emozioni vissute in quei giorni?
«Non ho mai vissuto momenti di guerra, ma quando scendevo in pronto soccorso e vedevo tutti quei pazienti era veramente impressionante. Di notte non riuscivo a dormire, anche perché ogni giorno i numeri aumentavano e ad un certo punto immaginavo di dover mettere le persone anche nell’Hospital Street. Tutti noi ci siamo trovati davanti a qualcosa di straordinario, ci siamo ammalati e qualcuno purtroppo è mancato. Nella prima ondata abbiamo avuto 450 morti in tre mesi ed è stato fondamentale l’aspetto umano grazie al collegamento tra i pazienti soli e i parenti a casa. Ci siamo resi subito conto che stava capitando qualcosa di di eccezionale e in quel momento Bergamo è diventata la capitale del mondo del virus. Venivamo contattati da tutti i paesi per capire cosa stava accadendo e per avere i nostri protocolli di cura. Non nego che ho pianto più volte, perché era difficile rimanere impassibili davanti a tanti giovani e anziani sotto i caschi mentre ti guardavano spaventati o intubati in terapia intensiva».
Per alleggerire la pressione sulle strutture sanitarie è stato allestito l’ospedale in fiera.
«Se dobbiamo trovare un lato positivo della pandemia è proprio la solidarietà da parte di tutti, privati, aziende e istituzioni, con ben 33 mila benefattori che non hanno fatto mancare il loro supporto, fra i quali il Vaticano e la squadra dell’Inter. Un aiuto fondamentale è arrivato dall’Accademia dello Sport per la Solidarietà, insieme agli Alpini, che ha partecipato in modo concreto per fornire l’impianto di ossigeno e la strumentazione necessaria. Grazie all’ospedale in fiera abbiamo potuto ricoverare 140 pazienti, dei quali una ventina in terapia intensiva».
Bergamo si è dunque confermata come capitale della solidarietà e del volontariato.
«Sicuramente, ho citato l’Accademia dello Sport per la Solidarietà, perché la collaborazione è in atto da anni con aiuti concreti sia per la patologia neonatale sia per il percorso disabili introdotto a Mozzo. Giovanni Licini, fondatore dell’associazione, non sta mai fermo ed è veramente un vulcano di idee in grado di portare avanti progetti molto importanti».
Oggi fortunatamente la situazione è migliorata.
«In Italia la vaccinazione sta dando i suoi effetti e dobbiamo continuare su questa strada».
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I giorni più difficili raccontati da Roberto Keim, primario di Rianimazione dell’ospedale di Seriate
Roberto Keim, primario di Rianimazione dell’ospedale di Seriate, ripercorre i momenti più tragici e concitati dell’emergenza sanitaria vissuta in Bergamasca. Grazie alla generosità di tanti imprenditori, riuniti nell’Accademia dello Sport per la Solidarietà, è stato possibile curare centinaia di pazienti.
Tutti noi ricordiamo le code fuori dai pronto soccorso e all’interno delle strutture sanitarie i posti letto non erano sufficienti per accogliere e curare la moltitudine di bergamaschi contagiati.
«Solo a Seriate siamo arrivati ad avere 100 malati al pronto soccorso, quando normalmente si ha una capienza massima di 30 o 40 persone. Il numero di pazienti affetti da insufficienza respiratoria ci ha obbligati ad ampliare i posti letto in terapia intensiva e sub intensiva. Posso affermare che siamo riusciti a compiere un miracolo, perché nel giro di 15 giorni abbiamo quadruplicato la terapia intensiva, grazie ad un immenso sforzo tecnico, logistico e operativo».
Oltre agli spazi fisici, dove ospitare letti e pazienti, il problema era quello di reperire anche le attrezzature.
«Il nostro dipartimento era fortunatamente ben dotato, ma è chiaro che abbiamo dovuto andare alla ricerca di ventilatori e dei famosi caschi C-pap. Abbiamo raggiunto i 60 trattamenti in contemporanea e i dispositivi sono stati utilizzati per i pazienti che necessitavano di un’assistenza meno invasiva. Sui 240 posti letto, calcolando anche le terapie intensive, in due settimana ci siamo trasformati in un ospedale esclusivamente Covid. Le attrezzature mediche indispensabili per il trattamento dei pazienti, non sono certo saltate fuori dal cilindro. Le aziende non avevano scorte sufficienti e i presidi venivano richiesti da tutte le strutture ospedaliere lombarde e italiane».
E’ in questo momento che si è scatenata la generosità di tutti i bergamaschi e di molti imprenditori, che hanno permesso di recuperare in breve tempo le attrezzature necessarie.
«Dobbiamo veramente ringraziare le aziende orobiche che si sono avvicinate all’Accademia dello Sport per la Solidarietà sovvenzioni e dispositivi vitali. Con Giovanni Licini, fondatore dell’associazione, si è instaurato un rapporto continuo, che ha permesso di comprendere le nostre esigenze e di trovare soluzioni nell’interesse di tutta la comunità».
Quali sono state le criticità maggiori?
«Per far funzionare caschi e ventilatori serviva tanto ossigeno, di conseguenza andava cambiata e potenziata la centrale di erogazione per assistere tutti i ricoverati, ma lo stesso discorso vale anche per i flussimetri. Alle aziende, molte delle quali bergamasche, che hanno incrementato la produzione H24 va tutto il nostro plauso, perché insieme agli operatori sanitari hanno permesso di curare e salvare centinaia di vite umane.
Il periodo pandemico è stato caratterizzato da diversi miracoli, come nel caso del reperimento dei farmaci cosiddetti “Curari”, indispensabili per addormentare i pazienti e permettere la pronazione e una migliore respirazione nei casi più gravi. Proprio parlando con Giovanni Licini, abbiamo scoperto che sul nostro territorio esisteva una realtà che commercializzava le fiale di curaro. Teniamo presente che durante la prima ondata avevamo un’ottantina di pazienti intubati per 15/20 giorni e che necessitavano di più cicli di pronazione per poter respirare meglio. Per uno scherzo del destino, il medicinale che ci è stato donato dall’azienda bergamasca è servito per salvare la vita a tanta gente, ma anche dello stesso imprenditore donatore, che nel frattempo aveva contratto il Covid. Infine è doveroso ricordare l’arrivo, grazie alla disponibilità dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà, in accordo con il dottor Gianluigi Patelli, primario di radiologia a Seriate, della tac mobile proveniente dall’Olanda. I tamponi richiedevano tempi di attesa lunghi, mentre una radiografia dei polmoni permetteva di stabilire subito lo stato di salute del paziente e iniziare di conseguenza le terapie».
Dal punto di vista umano, cosa rimane della battaglia combattuta contro la pandemia?
«Ci ha toccato molto perdita di colleghi medici e infermieri, che hanno lavorato con noi e che purtroppo abbiamo visto morire. Durante i ricoveri non abbiamo mai fatto mancare il nostro supporto ai pazienti ricoverati, ma abbiamo anche instaurato un rapporto umano con le famiglie, che ci affidavano i loro cari senza poterli venire trovare e in molto casi non li rivedevano più perché nel frattempo morivano. Chiudo dicendo che dobbiamo essere grati alla scienza, che ha compiuto un vero miracolo, realizzando un vaccino che ci sta consentendo di tornare a vivere normalmente».
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